Le mie recensioni

Le mie recensioni

di Annamaria Porrino

Scrivere recensioni letterarie è iniziato, come tante volte accade, per caso.
Tornata da Roma, dove spesso vado a trascorrere qualche giorno da mia figlia, decido di accettare l’offerta fattami tempo prima da un settimanale regionale, e cioè curare una mia rubrica culturale basata su recensioni di libri.  Accettai ad una condizione: dovevano essere recensioni letterarie, cioè di libri di valore scritti da grandi autori; che spesso sarebbero stati i loro libri meno conosciuti perché amo trattare di quello che vale ma la massa non lo tiene in considerazione proprio perché minore; che avrei alternato la letteratura con la buona narrativa contemporanea, e che non avrei mai recensito un libro imposto da qualche casa editrice per avere un po’ di pubblicità senza meritarla.
Hai carta bianca, mi fu risposto.
Iniziai proprio con questo primo scritto, come una sorta di prefazione.
Smisi dopo quattro anni, dopo ben 48 recensioni, perché seppi con certezza che avevo ottenuto il risultato che mi ero prefissa. Non fu l‘aumento delle vendite del giornale (quando annunciai che terminavo per dedicarmi ai miei manoscritti da completare per tornare alla pubblicazione, il direttore mi scrisse – bene per te, male per me -), né tantomeno quel poco di notorietà che si acquista scrivendo su un giornale, no tutt’altro. Smisi dopo che un giorno incontrai un ragazzo da poco diplomato, che mi chiese se ero io quella che scriveva le recensioni, gli dissi di si e lui – beh sa, mi interessano, fanno venire voglia di comprare quei libri che recensisce, uno l’ho comprato, quello di Matilde Serao, e ho fatto bene, mi è piaciuto –

Mi lasciò a bocca aperta, non potevo crederci, un giovane del duemila che leggendomi era andato a comprare un libro di una donna della fine dell’ottocento che ha scritto letteratura usando un linguaggio certamente non moderno, e lo ha fatto perché la mia recensione lo aveva spinto a leggere quel libro. Ecco, dissi tra me, ora posso smettere, ho ottenuto quello che volevo, parlare di libri in modo tale da spronare il mio lettore a comprare quel libro.
Era questo il mio scopo, non per usare il giornale per autoreferenziarmi, per godere del mio nome scritto in grassetto, non per arricchire il mio curriculum nè per scrivere con paroloni da intellettuale che al primo rigo chi legge cambia pagina. No, il mio scopo era portare il lettore a considerare di nuovo il grande valore della letteratura per non ritenerla mai desueta e superata, e a comprare libri, perché una vita senza libri è come una tavola senza il pane.
Me ne tornai a casa sorridendo soddisfatta, quasi incredula, come un miracolo che non ti aspetti avvenga eppure te lo ritrovi davanti incarnato.
Mandai la email al direttore, sorrisi alla risposta e ripresi i miei manoscritti lasciati incompleti per portarli alla pubblicazione.
Le recensioni che ora pubblico sul mio sito rappresentano un estratto del numero totale, soltanto qualche esempio. Chissà, potrei avere lo stesso risultato…

É da qui che è iniziata la mia avventura di recensitrice

Sono da Feltrinelli a Roma, al mio tavolino preferito, quello sospeso su una piattaforma trasparente che guarda verso l’esterno. Alle pareti laterali sono state trascritte massime storiche inerenti alla lettura, del tipo – una vita senza libri è come una parete vuota – Tra le mani, la solita pila di libri che scelgo passando da un settore all’altro del primo piano, questa volta ho preso una raccolta di foto di donne anonime dai cui occhi traspare ogni attimo della loro esistenza vissuta nella difficoltà di rimanere anonime in un mondo che invece ti vuole sempre protagonista, un manuale che ti consiglia come vestirti bene per ogni occasione, persino per un safari, senza però spiegarti come fare per permetterti tutti questi outfit e soprattutto chi e quanti vanno a fare un safari?
E un libro di narrativa, ma soltanto all’apparenza.
É ora di pranzo e sui tavolini vicini si alternano insalate, panini e macedonie, sul mio un decaffeinato e un pezzo di torta di grano saraceno e prugne, e questo libro sopra gli altri. Non mi ha colpito per la copertina come spesso succede ai lettori da week end, né per il nome dell’autrice, una iraniana a me sconosciuta, ma semplicemente per il titolo – Una donna che leggeva troppo –
Il troppo mi insospettisce, se fosse stato scritto – tanto – sarebbe stato normale, ma troppo indica già qualcosa di più, anzi di oltre. Forse quel troppo fa capire a qualcuno o a molti, che questa donna che leggeva dava fastidio? Se è così, perché? Apro la prima pagina, là dove in genere l’autore offre una dedica, qui invece trovo scritto: – Su una lapide del cimitero della città di Qazvin, è incisa l’immagine raccapricciante di un mullah in preghiera, accoltellato alla schiena da un uomo dal viso coperto. Dietro di lui, seminascosta da una tenda, una donna osserva la scena, tiene in mano la prova incriminante del fatto che sa leggere –
Tiene in mano una prova, cioè un libro, suppongo. Incriminante? Quindi per una parte dell’umanità una donna che legge è una criminale alla stregua di un assassino? E chi uccide, mi domando, con la sua cultura? Forse chi è abituato a dominare con la sua forza violenta perché altre forze non ha, il solito lupo travestito da agnello che nulla può contro l’innocente e inoffensiva cultura e, temendola quindi come la peggiore nemica, la incrimina di colpevolezza, la colpevolezza di mostrare, prima a lui poi agli altri,  la sua inferiorità? É possibile.
Passo alla seconda pagina, e leggo: – Questo libro è dedicato alla memoria di una donna persiana del XIX secolo, una donna che, sebbene sia ritratta su una lapide del cimitero di Qazvin, pure non ha avuto l’onore di un epitaffio –
Ecco, ogni risposta è in questa frase. Una donna esiste, lascia la sua traccia, di quelle che nessun tempo potrebbe cancellare, ma il mondo non la ritiene meritevole neppure dell’epitaffio che ne ricordi la scomparsa.
Come può una donna meritevole non meritare?
Può se scavalca qualcuno, ma soprattutto se lo fa nel silenzio del merito e nella modesta cura delle sue virtù, appropriandosi democraticamente dell’arma invisibile più pericolosa sia sempre esistita: la cultura.
La cultura nasce da un desiderio o da un bisogno e, per maturare, deve passare dalla lettura, la conoscenza cioè del pensiero espresso con parole scritte, quindi silenti, da quelli che ci hanno preceduto o convivono con noi seppur in parti diverse del mondo, e che non debbono mai essere dimenticati.
Poi si esprime nelle sue varie forme a noi più congeniali ed ecco che l’arma può colpire, una per ogni settore, una per ogni persona, una per ogni scopo. Silenziosa, sottile, costante, svelante, diretta. La cultura opera, prolifica, dona e si dona. Ma allora perché fa paura la cultura se ha solo meriti, e perché fa paura una creatura che si accultura se poi procura solo benefici, per se stessa e per gli altri? Lo è se questo cumulo di positività è incarnato in una donna.
Sia essa persiana o occidentale, giovane o anziana, emancipata o nostalgica, ribelle o discretamente remissiva, bianca o di colore, dell’800 o del secolo contemporaneo, non importa, basta che sia una donna ed ecco che tutte queste virtù per molti si trasformano in difetti, addirittura pericolosi quindi da scansare o  addirittura condannare. E se si condanna di conseguenza si giustizia.
Si, queste donne diventano pericolose, perché la cultura è la libertà per eccellenza, e una donna colta diventa libera pure se incatenata a vita, e fa tremare tutti quelli che donne così non riescono proprio ad amarle. Spesso l’opposto di amore è odio, e altrettanto spesso dall’odio si passa alla violenza con la stessa velocità con cui si chiude il gas prima di partire per le vacanze.
Donna, lettura, cultura, virtù, libertà = calamita per la morbosità e per l’inferiorità che da sola esce così allo scoperto nonostante le tante maschere adoperate per nasconderla, ma soprattutto calamità per la violenza.
Ma allora cosa dovremmo noi donne per evitare simili violenze o conseguenze di altri istinti che pare prolifichino sempre più anche in civiltà che si proclamano civili ma che ancora non condannano adeguatamente coloro che violentano o uccidono donne e bambini, o altre che permettono che si venga castigate con l’acido sul volto perché non viene ritenuto reato, o in altre è un reato minore alla stregua di chi firma un assegno scoperto. E talvolta l’acido ti viene lanciato in faccia proprio perché hanno scoperto che leggevi un libro.
Dovremmo smettere di leggere quindi? Mai.

Dovremmo smettere anche di desiderare di acculturarci? Mai.
Dovremmo smettere di chiedere di rispettarci nei nostri diritti? Mai.
Dovremmo smettere di mostrare la nostra cultura per rendere innocuo il boia di turno? Mai. Allora cosa? Ora mi viene in mente solo questo: educare.
Si, educare fin dall’infanzia, con parole ed esempi, alla parità, alla eguaglianza, al rispetto, all’amore. 

E siamo proprio noi donne che possiamo e dobbiamo farlo, iniziando dai nostri figli a farli crescere seguendo due elenchi, da imprimere nella mente come fossero incisi: quello del si fa e quello del non si fa.
Entrambi, una volta imparati e assimilati, vanno a convergere in un unico concetto che diventa comportamento: amore.
L’amore non fa appassire, l’amore non schiaccia, l’amore non offende, l’amore non denigra, l’amore non proibisce, l’amore non uccide.
L’amore ama, semplicemente. E lo dimostra, semplicemente.
Chiudo il libro e immagino un epitaffio, di quelli sempre eterni, da mettere in evidenza all’entrata di ogni cimitero del mondo:
“Qui giacciono anche donne uccise da chi aveva promesso di amarle, ma costui era un vigliacco menzognero, e anche donne massacrate soltanto perché scoperte a leggere un libro”.
Forse, col tempo e giungendo al tempo dell’amore, tante tombe rimarranno vuote.
E si potrebbe anche sperare di arrivare così a cancellare quell’epitaffio, seppure immaginario.

Torna in alto