“Lo stesso mare”

di Amos Oz​

Nato come Amos Klausner, cambia il suo cognome in Oz cioè – forza – in seguito ai contrasti con il padre, scaturiti dal suicidio di sua madre avvenuto quando lui era appena dodicenne e culminati nella inaccettata scelta paterna di aderire alla destra ebraica. Cambiare il cognome ha significato cancellare una eredità paterna macchiata, lui tradito mai traditore non doveva portare un cognome sporcato da colui che aveva scelto male e non se ne era mai pentito, e forse era corresponsabile di quel suicidio, mai giustificato, mai dimenticato, mai compreso.
La sua forza Amos la esprime tutta nella sua letteratura: stilizzata in frasi brevissime che riescono però a esprimere concetti e a raccontare storie, le storie dei suoi inusuali personaggi che sembrano intersecarsi tra le loro stesse vite. Ma è solo un bluff, rimarranno soli nelle loro storie, nelle loro convinzioni, nelle loro abitudini di cuore.
“Lo stesso mare” scritto nel 2008 ne è un chiaro esempio.
È il romanzo stesso che ci presenta lo scrittore che, a metà narrazione, irrompe come uno spettatore che deve scuotere i personaggi alla reazione o meglio, alla rivelazione di sé.
Il commercialista entra in scena parlando della sua vedovanza – … qualche tempo fa un cancro alle ovaie si è portato via sua moglie ma ne ha lasciato i vestiti e tovagliette finemente ricamate. Luce che muore, e più muore più assomiglia a un sogno … –
Suo figlio invece sembra uscirne con la sua partenza per il Tibet – … è arrivata una cartolina con un francobollo verde. Ciao papà, è bello qui. La neve fa venire in mente le favole bulgare che mamma mi raccontava. L’aria sottile deforma tutti i suoni. L’urlo più tremendo non arriva a spezzare la quiete anzi, per così dire, l’accompagna … –
Nel mezzo, un gruppo di comparse, mai secondarie.
La scrittura di Oz mi fa pensare agli SOS che si mandano per mare o ai vecchi telegrafi, piccoli segni per trasmettere l’essenziale di un messaggio, brevi righe simili ad appunti scritti con abbreviature nella fretta di non dimenticarli vanno a costruire una scrittura asciutta come il pane secco. Parole crude, scarne più delle chiese di paese, all’apparenza povere ma piene di tradizione e storia, fredde descrizioni di ambienti che ti fanno sentire come nel grigio dell’arte gotica.
La sua casa senza la madre non era più l’accoglienza e la bellezza, così dovevano essere anche gli ambienti di questo romanzo, quasi asettici come camere per autopsie.

Ogni pagina ha un suo titolo, come i neonati a cui viene dato il nome di battesimo, come le città che hanno il proprio cartello che indica che ci sei arrivato.
“Prima di: scusi, questo posto è libero / prima del colore dei tuoi occhi, prima di cosa bevi / prima di: mi chiamo Rico, sono Dita, prima di una mano che sfiora la spalla / è passato fra noi due / come lo spiraglio di una porta dentro il sonno”
Più di 200 pagine di poche righe ognuna per dimostrare che nessuno dei personaggi riesce ad abbattere il muro da loro stessi costruito per fermare l’amore, quel sentimento temuto, amato, odiato, lottato, che solo così può divenire indolore perché isolato oltre l’occhio scrutatore delle esistenze. E lui, Amos, che invano tenta di convincere i suoi personaggi a cercare ciò che è perduto, a fare cioè quello che lui non può fare, perché il suo perduto è sua madre, ed è un perduto introvabile. Invano appunto. Non ci riesce lui, non ci riescono neppure i suoi personaggi.
“Nemmeno loro troveranno risposta. Tutto sta più o meno appeso al nulla. E il silenzio tace. Ora levati, và in cerca, lieve e silenzioso, alzati và, cerca quel ch’è perduto…”

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