“La vita facile”

di Alda Merini

“La donna è sempre stata grande inventrice di vezzi, stratagemmi volti a catene che si impigliano nell’orologio dell’amato. La mia vita facile, invece, mi consente soltanto catenacci e chiavi della porta appesi al collo”.
Chi ha scritto questo è Alda Merini, la poetessa pazza che pazza non era, nata in una famiglia in cui il suo genio poetico, in piena come un fiume che sta straripando, veniva scambiato per un disturbo mentale che doveva essere curato in manicomio. A conferma di tale convinzione, l’appoggio determinante del marito.
Insieme, famiglia d’origine e marito, costrinsero Alda a vivere buona parte del suo tempo tra sbarre, seppure non carcerarie, e pillole sonnifere. Perché? Forse perché segnava sui muri le frasi che le venivano in mente, anche con il rossetto, come Picasso che faceva schizzi sulle lenzuola.
Forse perché si estraniava dalla realtà quando contemplava l’ispirazione che le visitava la mente, noncurante di chi la osservava o di quello che in quel momento avrebbe dovuto fare ma non faceva.

“Anche io devo avere un mio angelo custode, perché ad un certo punto mi invade la pace celeste, divento una ebete e inizio a scrivere. Non dirò mai cosa provo quando ricevo la visita dell’ispirazione”.

Pazza forse perché era profonda, mutevole, estrosa come le sue parole quando le zampillavano in mente, fuori dal clichè della donna madre e moglie che ama senza parlare, fa il suo dovere senza pensare, invecchia senza disturbare. Lei no, parlava scrivendo versi, troppo arguti per il suo mediocre marito, troppo maschili per la sua ipocrita famiglia. E cosa si fa quando una persona non soddisfa le tue aspettative e merita quindi la tua punizione, o ne temi la voce che può dare a lei potenza ma fa rimanere te nella tua impotenza?
La fai rinchiudere. E come si riesce a compiere un tale delitto? Con la testimonianza, circa la tua pericolosità mentale, di colui che ti ha generata o colui che ti ha sposata rendendoti anche madre perché per prolificare vai bene. E così fu. Venti sono gli anni che la Merini ha scontato in manicomio.
Il tormento, lo sgomento, la paura, l’alienazione, la sofferenza, acuta più di una lama conficcata tra il cuore e le costole, sono stati i suoi compagni nelle lunghe notti vissute in quello che potrebbe essere la personificazione reale di uno dei gironi infernali di Dante.

“Il legno per me è un simbolo di memoria. Tenendo le mani inchiodate al legno delle panchine del manicomio, veniva attutito il messaggio rapido del pensiero. Quelle panche divennero scorrevoli come rosari, enormi come cactus. Lacrime d’amore caddero su quelle piante


Riflessioni e racconti, e tante tante poesie. Parola dopo parola lei ricomponeva la sua vita lasciandone testimonianza e, una volta libera, l’ha offerta al mondo di fuori, un mondo fatto da estranei che l’hanno riconosciuta come essere esistente e non solo, l’hanno applaudita prima ancora di amarla.
Si può amare ed applaudire la follia? Solo se è genio fecondo e benefico che si svela facendo venir fuori la sua grande integrità mentale, quella ingabbiata dalle sbarre ma non annullata.
Solo un pugno di inetti, ignoranti ma presuntuosi, può credere che si possa bloccare e imbavagliare la forza della scrittura, quella evade in ogni modo perché deve arrivare e lasciare il suo messaggio, sia esso d’amore o libertà, di denuncia o narrazione, di poesia o di fede, di protesta o di informazione.
La scrittura corre, evade, irrompe, urla, accusa, discolpa. La scrittura è eterna, contemporanea, è la forma più elevata di libertà. La scrittura è senza tempo, la scrittura è.
Che rivincita per lei la candidatura al Nobel! Avranno provato vergogna i miseri che avevano tentato di impedire che la strana Alda arrivasse a tanto? Dubito, ma rabbia si, e tanta.

“La vita facile” è una serie di riflessioni su parole e oggetti comuni a tutti noi, quelli che lei paragona a clessidre su cui è passato il tempo. Quello che non è comune è il modo in cui lei ne parla, probabilmente perché non comune è stato il suo modo di osservarli.
“Agli oggetti non importa nulla della nostra vita ma è a noi che interessa la storia di questi feroci che invadono il nostro mattino. Questi esseri che si svegliano con noi all’alba e che continuano a ripeterci crudeli – sei ancora qui con noi, ancora una volta viva –
Nella sua povertà di vita la Merini è stata costretta a immaginare ogni cosa non poteva vedere o possedere, e lo ha fatto talmente bene, che ha raccolto una esperienza paragonabile a quella di un grande viaggiatore. Parte delle cose negate le ha ricevute poi dagli uomini che l’hanno amata quando divenne libera, ma lei dopo un po’ li rifiutava perché per amare le bastava soltanto la sua immaginazione come aveva sempre fatto, la reale presenza maschile non riusciva ad essere perfetta come lo era quando la sognava. Abituata per anni a sopravvivere immaginando, amando supponendo come potesse essere, l’incontro con l’uomo reale non poteva che essere scontro, l’immaginario era perfetto e doveva esserlo per farle reggere la totale imperfezione della follia che la circondava, ma una volta fuori lo vedeva nelle sue nudità interiori e perdeva valore, non aveva che farsene, meglio mandarlo via e continuare a immaginare il perfetto che non aveva carne, né parola. È proprio in questo libro che lei è molto chiara al riguardo quando paragona un suo amore a un pifferaio che riusciva a portare via la bambina che era in lei, ma lui restava adulto.
Alla parola – porta – dice che non le viene voglia di bussare perché ricorda quando una volta desiderava tanto parlare di poesia con una persona, ma questa non le aveva aperto perché stava mangiando. Lei non era abituata alle regole degli orari, lei seguiva la passione dell’istinto, molti non lo capivano e ne erano scandalizzati. Questi molti non credevano che nei manicomi gli abitanti erano abbandonati a loro stessi, ognuno seguiva i suoi istinti, dormiva quando aveva sonno e mangiava quel miscuglio che era nella sua scodella quando aveva fame. E così anche Alda.
Poi racconta che continuava a indossare soltanto scarpe dimesse e molto usate anche se il suo film preferito era – scarpette rosse – e, quando entrava in un negozio e le commesse le guardavano i piedi e la giudicavano povera, lei era costretta a precisare che era in grado di pagare, ma questo non la metteva a disagio, in questo ci riusciva la cattiveria di certi sguardi. Fumava moltissimo ma dormiva poco e, quando ci riusciva, gli enigmi della sua vita le venivano restituiti e pianificati come panni stesi al sole.
Nei sogni vedeva scorrere la sua immaginazione come fosse un suo cinematografo privato.
Poesia dopo poesia Alda Merini ha consumato gli anni accartocciandoli come carte di caramelle.
Ogni ruga ha testimoniato ogni suo passo compiuto, sul suo volto le tracce di ogni inciampo.
“La mia lettera di congedo sarà eterna ed eternamente sola come un volatile. Mi chiama la vita che un giorno mi abbandonò, la stessa nemica che un giorno mi dichiarerà sconfitta
È stata strappata alla vita velocemente ma silenziosamente, come velocemente ma silenziosamente fu strappata al mondo della normalità. Ma la pazza Alda, nella sua sana lucidità, è riuscita tra questi due enormi strappi temporali a lasciare la sua impronta eterna nell’olimpo delle divinità poetiche, e il ricordo di un volto colorato solo dal rossetto rosso, annebbiato dalla immancabile sigaretta, immortalato nella sua fiera malinconia, quella che rimane impressa su coloro che della vita ne hanno assaporato soltanto il fiele attendendo il miele. Spesso inutilmente, o arrivato tardi, tanto tardi da non cancellarti le rughe dell’attesa.

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