“Novecento”

di Alessandro Baricco

Alessandro Baricco, personificazione della controversia critica letteraria: o è tutto, o è niente.
Chi, come me, non si lascia suggestionare dalle sue interviste o apparizioni televisive, a volte troppo egocentriche, altre di antipatico presenzialismo, altre di interesse e crescita intellettuale, ammette che Baricco ha indubbiamente rinnovato la vetrina letteraria degli ultimi venti anni, fornendo al lettore nuove motivazioni di approccio alla lettura, quella con la elle maiuscola.
Novecento nasce come testo teatrale, è per questo che Io l’ho letto come non fosse un libro bensì un palcoscenico che si apre alla propria immaginazione, pagina dopo pagina, nel quale e sul quale un grande autore ci racconta una storia che incanta.
Il sipario si apre sul Virginian, una grande nave che, ai primi del novecento, portava in America più di mille persone alla volta e che, come tutte le navi che si rispettavano, aveva a bordo anche una orchestra: un trombettista, un batterista, un sassofonista e un pianista.
È il suonatore di tromba che fa da narratore. È lui che ci racconta così.
Un giorno un marinaio, nella sala da ballo della prima classe trovò un bambino, era adagiato in una scatola di cartone lasciata sul pianoforte. Capì subito che doveva essere figlio di emigranti, capitava spesso che qualche povera disgraziata partorisse nella stiva della nave e lasciasse ad altri quella bocca che lei non avrebbe potuto sfamare.
“Salivano, ognuno con il loro vestito consumato, l’unico che avevano. Poi però li vedevi scendere tutti ben vestiti e i bambini con certe camiciole bianche. Ci sapevano fare, in quei venti giorni di viaggio cucivano e tagliavano, alla fine non trovavi più una tenda sulla nave, più un lenzuolo, niente: si erano fatti il vestito buono. A tutta la famiglia. Dovevano aver pensato: se lo lasciamo sul pianoforte, magari lo prende un riccone e sarà felice tutta la vita. Il piano funzionò per metà. Danny Boodmann non diventò ricco, ma pianista si. Il migliore”
Il marinaio lo adottò e, per paura che glielo portassero via a causa di cavilli burocratici, non lo fece mai scendere dalla nave. Danny conosceva la terra solo da quello che vedeva dal porto. Non essendo mai stato registrato, lui non esisteva, aveva otto anni ma ufficialmente non era mai nato.
Quando il trombettista lo conobbe, Danny aveva 27 anni e non era mai sceso dal Virginian.

Non ne aveva bisogno, per viaggiare e conoscere il mondo gli bastava suonare il piano e, ogni volta che finiva, raccontava dove era stato, cosa aveva fatto, chi aveva conosciuto, descriveva persino gli odori di una certa strada che lui non sapeva neanche dove fosse o se esistesse davvero.
“Il mondo magari non lo aveva mai visto, ma erano 27 anni che il mondo passava su quella nave e lui lo spiava. Gli rubava l’anima. Sapeva ascoltare e sapeva leggere, leggere la gente, i segni che la gente si porta addosso : rumori, odori, la loro terra. Lui leggeva e catalogava. Ogni giorno aggiungeva un pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, la mappa del mondo. E lui ci viaggiava sopra da Dio, mentre le dita gli scivolavano sui tasti “
Il trombettista finì la sua carriera sul Virginian. Dopo otto ininterrotti anni decise di scendere e iniziare a vivere sulla terra dove un giorno sarebbe morto. Danny invece rimase. Quando il trombettista ebbe notizia che la nave era stata messa a deposito, si precipitò per darle l’ultimo saluto ma soprattutto per cercare Danny, che non c’era. Gli bastò guardare il piano però, e lo rivide, lo risentì. Era certo che Danny era ancora lì.
Un immaginario dialogo tra lui e il miglior pianista di quei tempi, chiude il sipario.
Dal libro sono stati tratti sia il film che le rappresentazioni teatrali, è così che siamo riusciti a sapere perché Danny non scese mai dal Virginian, neanche quando la nave andò in pensione.
La vita di fuori l’aveva sempre e soltanto immaginata, quindi era perfetta, lui se l’era creata perfetta perché è così che voleva credere che fosse. La sognava quindi la creava lui con tutti i colori e i profumi che avrebbe voluto vedere e sentire, popolata da una umanità sempre serena e festante come lo era sulla nave, senza drammi, paure, lacrime, senza cattiverie.
E’ per questo che non volle scendere, per non scoprirla diversa, volle restare nella perfezione del sogno, al di là della nave ferma in cantiere, abituato com’era ad immaginare, lui avrebbe continuato a vivere anche così soltanto nel ricordo della sua nave dove suonava il piano, vedeva le gente e sognava. Il trombettista comprende, va via ma non lo piange, sa per certo che Danny vivrà bene sulla sua nave, protetto come in un guscio d’uovo.
Credo che se Danny fosse realmente esistito, alla notte, fino a quando non fosse stato scoperto, lui su quella nave ancorata si sarebbe messo a suonare il piano, le sue mani avrebbero danzato su quei tasti per tornare a vivere in quella sua stupenda e perfetta esistenza immaginata.

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