Le librerie indipendenti

Voi, grazie al rigore dei vostri studi e allo slancio del vostro sapere, voi potete fare della lotta un’esperienza di tutti, trasformando la giustizia in passione“

B. Brecht

È inutile cercarla, questa frase era la conclusione di un suo discorso.

Con mia meraviglia l’ho letta in un racconto, geniale quanto convulso, ambientato nel mondo dei bibliotecari ricercatori di libri rarissimi. Leggevo ed era come entrare in un immenso luna park dove i libri erano le mie giostre, e gli orologi alle pareti e gli occhiali sugli scrittoi i veri personaggi. È così che mi sento quando entro in una biblioteca, penetro nella ricchezza delle parole lì racchiuse e lascio scorrere i battiti accelerati man mano che osservo gli scaffali, i libri ordinati per argomento, e immagino le tante mani che li hanno toccati, e forse amati. Il resto lo lascio alla mia fantasia di scrittrice, quello che ne viene fuori persino per me stessa è sorprendente. Uguale avviene tra me e le librerie, quelle indipendenti però. Dicesi libreria indipendente la realizzazione di una libreria ad opera di un libraio, professione ancora non estinta grazie ad un pugno di testardi sognatori che vogliono ancora credere che l’asino se vuole può volare, che si ostina a non volere diventare una pedina di nessuna catena libraria standardizzata, e pertanto decide di trasformare un piccolo spazio, spesso abbandonato e dismesso, di un vicolo senza bar né ristoranti, in una libreria dai colori tenui, senza neon né hit esposte né musica assordante, ma così bella nei suoi libri originali nei quali, l’adulto che entra, non ne vuole più uscire perché è diventato un’Alice nel suo paese delle meraviglie. Una pila di libri datati anche primo novecento puoi trovarla in un angolo apparentemente dimenticato, si aprono con delicatezza, l’usura ha reso friabili le legature, e puoi commuoverti a leggere le dediche, in prima pagina e a matita con quella grafia in corsivo così in disuso da essere age; giri da un lato e ti ritrovi a fronte una serie di scaffali, presi in svendita dal negoziante vicino che ha chiuso per mancanza di clienti, con libri in ordine di argomento; inciampi in ceste piene di libri di favole, e qui vorresti abbracciarlo questo libraio che aborra i mostri e i robot e per questo insiste con Rodari e Beatrix Potter; e resti in questo vortice trovando libri di fotografia e pittura, cataloghi che non sapevi fossero stati pubblicati, romanzi di quell’autore che nessuno sa che è esistito o che esiste ancora, i libri delle piccole case editrici che ancora leggono i manoscritti che arrivano loro per posta, avvicini il naso per leggere meglio nomi che non conoscevi, sfogli e ne viene fuori un’opera d’arte in movimento. Spesso esiste anche una seconda camera, tipo sgabuzzino riadattato, è lì che quasi sempre ci trovi i libri storici e quelli in lingua madre, tu quella lingua non la conosci ma quanto ti piace leggere e non capire nulla, perchè sei conscio che c’è qualcosa di buono in quelle righe. Ecco, enunciato in maniera un po’ romanzata ma veritiera, è questo quello che per me una libreria indipendente offre, un mondo che tanti tentano ancora di fare inghiottire dal mostro globalizzato ma che ancora non se ne appaga, perché il libraio indipendente resiste.

Perché il libraio indipendente esiste ancora.

Spesso si crede che questo mestiere sia una fetta di commercio in disuso o quanto meno senza profitto, ebbene, seppure resta eroico lo sforzo di sopravvivere, i dati delle indagini di mercato infondono inattese speranze.

Infatti, udite udite, nonostante la grande carenza di lettura, le vendite delle librerie indipendenti negli ultimi dieci anni sono aumentate tanto quanto sono invece calate quelle delle catene dei grandi marchi. Ma un dato mi ha fatto sgranare gli occhi, confermando ciò che da me stessa avevo considerato: le grandi catene di librerie devono sottostare alle scelte delle grandi case editrici e delle grandi distribuzioni, esponendo quello che questi stessi indicano perché è su quello che puntano come ipotetico successo editoriale. Ebbene pare che anche questo sia stato un flop, dalle stesse statistiche è emerso infatti che il calo di vendite è proporzionato al calo del valore di quanto pubblicato e messo in commercio. In poche parole, la brama di chiudere in positivo i loro bilanci da parte di quasi tutti i nostri editori, convincersi che va pubblicato quello che in quel dato momento si ritiene più vendibile trascurando però il vero e valido scritto ma forse poco redditizio, si è rivelata una tattica manageriale sbagliata se non autolesionista, masochistica direi.

I soliti nomi strapropagandati anche in tv fino alla nausea, le solite tematiche da cavalcare per mero opportunismo, quintali di carta stampata che mai ti procura stimoli intellettivi né emozioni che non arrivano a sfiorarti neanche il primo strato di pelle, una sequela di belle copertine come modelle alla loro sfilata, corredate da titoli accattivanti e originali, ma poi apri e ti si sbatte in faccia la solita melensa prefazione, tutta autoreferenziazione e paroloni per apparire intellettuali, trascurando lo scopo, come dice il termine stesso: prefazione = presentare il prodotto, in questo caso il contenuto del libro. Ma una chance gliela concedi, lo prendi e vai subito alla prima pagina, bah, vai alla fine del primo capitolo e leggi il nulla, poi te la giochi tutta e scavalchi il mistero della fine quindi ti fiondi sull’ultima pagina. Zitta chiudi, lo riponi dove era e vai oltre, senza commentare. Ma non ti arrendi, cerchi disperatamente consolazione, e la trovi, relegata più o meno vicino il wc ti appare, come cometa di dicembre, l’area letteratura classica. Una sfilata di nomi da inchino che ti fanno dimenticare presto quelli anonimi di prima, quelli dalla autobiografia facile, dell’ex della influencer da un milione di follower, di quello che ha provato tutte le esperienze della vita e ce ne fa un elenco. Ecco, tutto si rialza quando leggi Aleramo, Woolf, Lawrence, Levi, Ortese… e ti sembra di aver lasciato una sorta di purgatorio/limbo dove galleggiano gli usurpatori del termine scrittore e i loro rispettivi editori, mentre ti gonfi dal cuore al cervello di fronte a questa sfilata di giganti. Quando tutto questo capita a me, una volta fuori, io immagino di udire la loro voce supplicante: abbiate ancora un minuto per noi.

La consolatio a ciò io me la prendo nelle librerie indipendenti: a Roma, nei vicoli di Trastevere dove annusi odore di stampa mescolato a quello dell’umido delle pareti vecchie, e quella che è dal lato opposto, molto vicina alla Basilica, che invece mantiene una identità radical chic intellettuale; quella nell’unica stradina deserta che porta a Campo de’ fiori che ti vende intere collezioni di libri di storia e politica, sempre a pochi soldi altrimenti nessuno più le comprerebbe; quelle che non possono permettersi le mura ma soltanto una bancarella eppure ci trovi chicche che non t’aspetti ci fossero ancora. Da Fahrenheit 451, storica, ineguagliabile libreria libera, mai quanto lei che la possiede da anni, che ti riempie di parole che le scorrono travolgenti come cascate, che sorride mentre sistema libri, che abbraccia gli amici che vanno a trovarla, che organizza ancora incontri come salotti per pochi intimi, veri estimatori.

E non piange quando fa sapere di sentire l’odore acre della fine, sa bene che dovrà cedere, chi possiede quelle stanze ha ricevuto una lauta offerta per fittare ad un bar, quella cifra lei non potrà mai pagarla. Se e quando questo accadrà, a quella saracinesca abbassata si dovrebbe affiggere un manifesto di lutto, la fine di uno spaccato di cultura che doveva essere eterno.

Ma la lacrima si asciuga quando poi scopro realtà in piena espansione in tante altre città, anche le più piccole, dove prolificano nuove inaugurazioni o si assiste alle conferme salde del già avviato. Sono proprio queste che ci dimostrano come lavorano le librerie indipendenti. Scavalcano le distribuzioni e hanno contatti diretti con gli editori che loro stessi scelgono perché li ritengono degni di fiducia nel come selezionano gli scrittori, e per accattivare il compratore offrono tante alternative al libro: spazi gastronomici di prodotti locali e genuini, relax con buone tisane, aree bricolage, giardinaggio, cucina, creano spazi dedicati a scrittori emergenti o auto pubblicati, vendono oggetti coerenti al mondo della scrittura/lettura come avviene a Macerata ad esempio, o addirittura si impartiscono lezioni ultrascolastiche sui temi più richiesti dai giovani come avviene a Venezia, o sono le insegnanti private che danno appuntamento allo studente sulle poltrone di quella libreria indipendente piuttosto che su quelle di casa loro. I più coraggiosi creano una libreria indipendente nel pieno di un rione di borgata periferica, dando a chi entra un ambiente opposto al suo tetro condominio: grandi finestroni dove entra cielo e sole, e pareti tappezzate con vecchie pagine di libri abbandonati.

Tutte, a modo loro, ti riportano al senso lieto e pacato della vita.

Dentro, il libraio. A volte è lo stereotipo del vecchio venditore di libri: un po’ sciatto, curvato, che legge sulla sua seggiola da anteguerra, e che ha passato tutta la sua vita lì dentro, ogni giorno fino al calare del buio; altre volte invece ti imbatti nel libraio giovane, dal pantalone stretto alla caviglia, gilet o sciarpa no global, capello riccio e fluento o barba appuntita fino al petto, orgoglioso di essere entrato in una ventata di fresco mestiere con tanta volontà di non uscirne sconfitto, che ti propone quello che sta leggendo o interpreta al volo i tuoi gusti e ti porta allo scaffale giusto, ti mette il libro che hai scelto in una bustina di carta riciclata e con lo scontrino ti dice – poi me lo fa sapere se le è piaciuto e perché?

Oppure – le farebbe piacere scrivere un suo pensiero sulla nostra lavagnetta? –

E ci sono quelli che si offrono di venire a svuotarti cantine ammuffite e librerie di case dove la morte deve traslocare, a te rendono un servizio, per loro la possibilità di salvare libri destinati al macero ridandogli nuova vita.

Infine ci sono librai che diventano persino simbolo di un luogo.

Un esempio su tutti? Simone Gallorini, Librorcia a Bagno Vignoni, Toscana.

Entri nel borgo, ti avvicini piano alla grande vasca termale che è la protagonista assoluta, diva pudica e silenziosa, riservata ma spettatrice. Le passeggi intorno, ne rispetti la quiete, guardi dove puoi ed è proprio così che ti ritrovi dinanzi ad un pugno di gradini in cotto, terrazzino un metro per un metro dove comunque è riuscita ad entrarci una panchina, una porta aperta, musica delicata che si effonde come fosse spruzzata da uno spray, entri timida e ti ritrovi in una stanza alta con camino laterale pieno di grandi libri per bambini, due divani che sembrano usciti da un fumetto, spazi per penne e cartolerie fatte a mano, e scaffali altri quattro metri stracolmi di libri, una sfilata di colori e titoli che puoi toccare e prendere tu stesso salendo sulla scala che è li apposta per questo. Lui ti sorride e ti fa accomodare come se ti avesse aperto la porta di casa sua, e poi ti lascia, se ne va fuori a scambiare due chiacchiere con il ristoratore di sotto.

Grazie a tutti i librai che hanno aperto le loro botteghe nei secoli scorsi, a quelli che hanno venduto i meravigliosi libri del novecento e sono andati in pensione prima del deludente nuovo secolo, grazie ai novelli del duemila, voi tutti siete portatori di cultura, quella parola che ancora adesso fa tremare. E finché sarà aperta anche soltanto una di queste saracinesche, io salto di gioia, mi riempio di speranza e ottimismo, e brindo. A voi librai un gigantesco e universale prosit.

Annamaria Porrino

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