Samira al-Khalil, parole dall’assedio

Samira al-Khalil, parole dall’assedio

di Melania Petriello

Giovanna Ragusa, anima della MReditori è una editrice pervicace.
Sceglie con cura le sue storie, scava, affonda, si prende cura del raccolto.
Mi ha raccontato la storia di Samira con una convinzione invidiabile. La scelta di pubblicare un libro che racconta i diari dall’assedio, nella Siria dilaniata dalla guerra e dalla ferocia, dimostra coraggio.
Giovanna spiega le sue ragioni, nelle righe che seguono, e lo fa aprendoci alle immagini della Samira che lancia il suo grido: una donna, dalla parte delle donne, e della pace. Samira, di cui si sono perse le tracce, è innamorata del suo paese fatto a brandelli, in cui il peso più ingombrante è sulle spalle delle donne, delle madri, delle figlie.
La resistenza siriana è costellata di figure femminili forti, mai piegate, che non si sono arrese al regime e all’offensiva jihadista.
Un diario obbligato che, attraverso questo libro, arriva nelle case dei lettori italiani.
Raccontare la guerra è una missione. E gli occhi di una donna consapevole del suo destino riescono a metterla a fuoco, con lucidità e dolore.

Samira è entrata nelle nostre esistenze, quella mia, quella della casa editrice, quella della collana Riyah appena nata, quasi per sbaglio, ma sin da subito non ci sono stati dubbi: si doveva pubblicare, anche in Italia bisognava parlare di lei; avvertii quasi il bisogno fisico di raccontare l’esperienza di quella donna semplice, eppure così grande soprattutto perché qui da noi se ne sapeva poco e, ahimè, ancora troppo poco se ne parla. Probabilmente il mio essere donna e imprenditrice in un territorio difficile mi ha permesso di sentire con lei una vicinanza e una comunanza di ideali più spiccate. Fu uno dei traduttori, Sami Haddad, docente dell’ateneo napoletano L’Orientale, a proporre a me e ad Antonino d’Esposito, il direttore editoriale della collana, questo testo sconvolgente e lo fece prima di tutto per l’affetto che lo lega al marito di Samira, Yassin al-Haj Saleh, suo vecchio compagno di studi e di lotta negli anni ’80 e di cui a breve pubblicheremo un importante saggio politico sulla rivoluzione siriana. Dunque la storia di Samira e di Yassin, fatta di attivismo e di opposizione al regime siriano, non si esaurisce negli ultimi anni di cui “Il diario di Samira al-Khalil” tratta, ma si radica nell’ultimo mezzo secolo di storia del Vicino Oriente.
L’esperienza della MReditori nel territorio delle lettere arabe è iniziata nel febbraio del 2019 quando la collana Riyah nacque con la raccolta di racconti “La storia della sete antica” di George Salem; poco dopo arrivò Samira tra le nostre mani, all’improvviso, come un dono inatteso. Le pagine di questo testo
sono particolari anche perché sfuggono alla categorizzazione letteraria classica, è in una certa misura un diario, ma non fino in fondo. Innanzitutto, Samira è diventata scrittrice suo malgrado ed è lei stessa a dircelo in apertura: “Non avevo intenzione di scrivere: lo faccio solo per raccontare ciò che accade”, una frase che racchiude in sé l’essenza del libro. Un libro scritto con un linguaggio semplice, diretto, alle volte crudo, in dialetto siriano e non in arabo classico, come a sottolineare quanto la gente comune sia al centro
dell’attenzione di Samira. Un libro articolato in tre sezioni diverse: la prima raccoglie degli appunti autografi salvati dagli amici di Samira e fatti pervenire al marito; la seconda raccoglie i suoi post pubblicati sul suo account Facebook e l’ultima presenta degli articoli di Yassin usciti dopo il rapimento della moglie.
È il 2013, Samira ha trovato rifugio a Douma, alla periferia di Damasco, per scappare alla polizia che era sulle sue tracce per il suo attivismo politico; la rivoluzione è iniziata due anni prima e quella zona della capitale è ancora fuori dal controllo del regime. Qui Samira sceglie di continuare a fare ciò che la fa sentire viva: aiutare le donne siriane che si trovano nella morsa della guerra, in un piccolo territorio libero ma continuamente assediato da un lato dalle forze del regime e, dall’altro, da gruppi di miliziani jihadisti. Insieme con Razan, Wael e Nazem (che con Samira condivideranno anche l’esperienza del rapimento il 9 dicembre di quel maledetto 2013) mette su un centro di ascolto e d’aiuto, chiamato Donne ora, che tenta di fare il possibile. Così Samira entra nelle case delle donne siriane sotto assedio e ne scopre la quotidianità e ce la riporta nuda e cruda: “Mi ha invitata a farle visita. Ci separa una strada appena, un marciapiede e qualche metro… È al terzo piano… maledetti siano i piani. Mi sono seduta e ho visto un lavoro incantevole fatto con pezzi di lana che lei stessa aveva tessuto nel suo tempo libero. Ha tre figli… Erano molto contenti per le porte dell’armadio: ognuno scriveva in una di esse. Sembrava la lavagna di una classe. Suo figlio, che non ha nemmeno cinque anni, mi ha chiesto: “Che lettera è questa?”. Sta imparando le lettere con sua sorella maggiore. Era la ta ( ت), che sembrava un piatto con del cibo… Forse aveva fame e per questo disegnava cibo… Era un quadro. Per lui la lettera della fame è la ta ( ت). Sua madre mi disse: “Andiamo in un’altra stanza”. Io però amo scoprire come passano i bambini il loro tempo libero in questo posto… “No, restiamo qui…” E siamo rimaste nella stessa stanza, era la cosa più bella, nel bel mezzo del baccano.”. Questo estratto è uno dei passaggi che amo di più, l’intimità di una casa e dei bambini che la vivono viene sconvolta dalla mancanza della scuola, dei quaderni e dalla fame che prende la forma delle lettere dell’alfabeto scritte sulle ante dell’armadio. Al di là della drammaticità di questo scatto quasi fotografico, Samira ci restituisce anche l’estrema forza di volontà di un popolo che nelle donne e nei bambini trova la sua fonte di resistenza. Un altro aspetto molto interessante, veicolato attraverso gli occhi di Yassin, è il destino che la Siria e Samira condividono, entrambe scomparse ed entrambe attese da tutti noi; perché se il 9 dicembre di sette anni fa Samira è stata rapita, tutti noi non possiamo arrenderci al pensiero di non rivederla più tra le fila della resistenza; non possiamo arrenderci al pensiero di un futuro uguale al presente proprio perché altrimenti commetteremmo un gravissimo torto nei confronti di Samira e di chi come lei si spende a favore della libertà. “Il carcere era uno scherzo” afferma mettendo a confronto gli anni passati nelle galere del dittatore al-Asad e la situazione a Douma, una situazione che precipita il 5 agosto 2013: “Alle cinque del mattino, ad al-Ghouta, sentii colpi alla porta e voci che gridavano: “Hanno bombardato con armi chimiche! Hanno bombardato con armi chimiche!”. Confusione generale in strada, ambulanze, gente che fuggiva con i propri figli, giovani che si mettevano addosso tovaglie imbevute di aceto dicendo che era utile. Alcuni suggerivano di macinare il carbone, avvolgerlo in un pezzo di tela e metterlo sul naso. Alcuni, col carbone, si erano sporcati il viso, altri ridevano al vederli. Voci che dicevano alle persone di salire ai piani alti, per sfuggire ai gas chimici. Poco dopo, il rombo di un aereo e i colpi dei mortai. Coloro che erano saliti ai piani alti per paura dei gas chimici, scesero correndo per paura dei missili. La nostra vicina scappava da un posto a un altro e ascoltava le imprecazioni della nonna che, fuggendo con i suoi nipotini, malediceva il regime ed il mondo intero… Fa’ fuggire i tuoi nipoti, oh nonna, non c’è nulla da fare.”. Ecco l’episodio più barbaro commesso di notte contro la popolazione inerme e in barba ad ogni trattato internazionale, le armi chimiche usate su civili inermi, un atto vile del regime insabbiato anche dalle alte sfere delle Nazioni Unite. Ma Samira non risparmia nessuno, ci mette davanti la verità e ne chiede il conto: “E il mondo sta a guardare. A causa dell’attacco chimico sono morti 950 donne e bambini, ed il mondo non si è mosso. Anzi, a dire il vero, ha reagito ed ha ritirato le armi chimiche, mentre le bombe degli aerei e i mortai continuano a cadere ogni giorno. Il mondo rimane indifferente e con la coscienza tranquilla, rimane tranquillo.” E ancora: “Che il mondo civilizzato mi risponda: se uno dei presidenti del mondo volesse sciogliere un raduno organizzato dalla gente per protestare contro un disservizio di internet, o per qualche servizio che manca, oserebbe utilizzare i suoi aerei, le armi chimiche o la sua artiglieria contro di loro? Cosa direbbe il resto del mondo civilizzato se lo facesse?”.

Leggere il diario di Samira è, secondo me, un dovere civile. Il mondo deve conoscere la storia di questa donna, una donna come tutte noi che in una situazione di guerra ha messo da parte se stessa ed ha teso la mano a chi la circondava. Una donna che ci guarda dritto in faccia attraverso le sue parole e ci chiede il perché del nostro silenzio, lei che da sette anni è stata costretta al silenzio da terroristi. Credo quindi che, mentre aspettiamo di vederla tornare tra di noi, al suo silenzio forzato dobbiamo sostituire la nostra voce, senza se e senza ma.

Giovanna Ragusa

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