L’uomo che crea donne dal bronzo, dal rame, dall’alluminio e lancia i suoi messaggi per loro
Recensione di Annamaria Porrino
Per i miei giorni pasquali, come sempre, anche quest’anno ero in Toscana, a Pienza. Faccio i primi passi e una cosa mi ha subito meravigliata: una serie di installazioni scultoree sono state sparse tra i cortili, gli androni dei musei, e nella corte centrale del Palazzo Piccolomini. Mi hanno colpito così tanto che ho fatto uno strappo alla regola, qui, sul nostro sito e sul nostro facebook dove trattiamo prettamente del femminile, ecco che mi ritrovo invece a presentare uno scultore, ma il motivo c’è. Alberto Inglesi infatti, a giusta ragione, è stato definito l’uomo che crea donne dal bronzo, dal rame, dall’alluminio, e lancia così i suoi messaggi alle donne: come le vede, come le hanno trattate, cosa hanno subito, la loro regalità, le loro vittorie seppur nelle menomazioni. Non sono attratta dall’arte moderna, la trovo quasi sempre fredda, muta, senza sentimento.
In questo caso invece no, in queste sculture ho letto ogni pensiero femminile, ogni condizione, ogni vittoria. Ogni sensibilità.
E così, nel cortile della biblioteca comunale, incontro – Situazione di donna – una scultura in bronzo e marmo che evidenzia una delle tante condizioni femminili, probabilmente la morte per violenza: il corpo è accasciato su una sedia, il capo è riverso all’indietro come stesse spirando il suo ultimo dolore, è nuda ma semicoperta da un paltò che quasi accompagna l’accasciarsi di questo corpo dalle braccia amputate, una gamba lunga e affusolata calza una scarpa rossa, da sempre il simbolo del femminicidio, l’altra gamba non c’è, la massa di bronzo è rimasta così, senza forma, come accade alle vite spezzate in un attimo di folle ferocia. L’ho guardata più volte girandole intorno e, ogni volta, ho scoperto qualcosa di diverso dal primo impatto, come un’aurea intorno a questa donna aleggia mistero e profondità, verità esposte e celate, dubbio e commozione, crudezza nella crudeltà che su essa le generazioni hanno inflitto senza mai pietà, meno che mai pentimento. Lasciarla mi ha aperto un senso di abbandono che non mi appartiene, eppure quel corpo di bronzo è riuscito a scuotere ancora di più la mia coscienza femminile.


Nello stesso cortile, mi volto e trovo – Mater Matuta – Ecco, qui invece c’è una coppia, ancora in bronzo e marmo, una donna sull’altra: una è accucciata su se stessa con le gambe così fuse tra loro da sembrarne una soltanto, un fardello a coprirne le spalle e il tronco, e la seconda eretta sull’altra, che invece si erge altera, le braccia si fondono con il busto, il volto bianco come quello dell’altra, espressioni ferme al lamento, all’urlo, alla sorpresa, a labbra per metà aperte, per metà morte. Qui io ci ho visto i tentativi delle donne dei secoli di farsi ascoltare, di unirsi nel dolore per non farlo dimenticare, per non sentirsi sole nelle lotte contro le avversità, le solitudini, le violenze, identiche tutte a dispetto delle età e dei secoli in cui hanno vissuto, accomunate da un identico destino, quello di dover lottare contro tutto l’ingiusto subìto, e che ancora si subisce.
Ho respirato un po’ tra vicoli e spiazzi sulla campagna, ne avevo bisogno, poi ho proseguito il percorso quasi ci fosse un filo teso a condurmi oltre e memorizzare le emozioni. Ed eccomi nell’androne del Museo Civico. Qui, tra resti di colonne e capitelli, e lastre con incisioni latine, ecco che trovo – Talassa – scultura in alluminio e bronzo. Altra donna, altra posa: è in parte distesa su di un letto di alluminio, ginocchia rialzate come rivestite da un lungo abito, il busto eretto, quasi nobile, un volto scuro, dignitoso, regale come potenza di cui lei è conscia, le braccia sono assenti ma non sono una mancanza, un vuoto, quasi non occorrono a questa donna già completa così. È forte, altera ma non altezzosa, cosciente del suo valore e della sua potenza, orgogliosa di mostrarla, di mostrarsi, senza temere giudizi. Lei è, e ne è cosciente, non le occorre altro.

Ed ecco che il filo d’Arianna mi ha portata al suo termine, la conclusione è nella corte del Palazzo Piccolomini, dove trovo una serie di donne, qui non più sole, non più singole opere a testimonianza di qualcosa, ma un intero gruppo: sono erette su piedistalli, ognuna sotto la sua architrave, ognuna ha il suo tipo di volto, di corpo, di espressione facciale.

Alcune sono provviste di ali, come nuovi angeli, altre corazzate come fossero le vincitrici di una guerra, quella guerra invisibile che ogni donna ha combattuto e ancora combatte per farsi spazio, per farsi riconoscere, per raccogliere il merito. Ora, per restare vive.
Sono più alte del normale, ad indicare quanto valgono, quanto sono, quanto ancora possono salire se si concede loro almeno il primo gradino. Esposte così mi hanno trasmesso un senso di vittoria, le ho salutate come vincitrici per tutte le noi dei secoli, in una gara mai finita ma qui terminata, in questa corte dove loro sono esposte come opere d’arte. Le ho ammirate alla luce del giorno, alla sera sono ritornata a compiere lo stesso percorso, con le stesse tappe, e tutto mi sembrava cambiato. Era come se qualcuno avesse impresso nelle loro forme altri messaggi, altre espressioni, eppure nessuno le ha ritoccate. A me, nelle ore in cui tutti erano nelle loro stanze, ed io invece ancora vagavo nella bellezza quieta e ferma di questo borgo, è parso che quelle sculture fossero divenute vive…
Annamaria Porrino
Presidente dell’Associazione Culturale Le Silenziose
maggio 2025